Da patrimonio industriale dismesso a micro—comunità residenziali

BOXinBOX è un progetto di ricerca finanziato dalla Comunità Europea nell’ambito dell’ecosistema iNEST, ideato da cinque aziende per esplorare la possibilità di riconvertire parte del patrimonio industriale dismesso del Friuli Venezia Giulia in micro-comunità residenziali. Case per anziani autosufficienti, residenze transgenerazionali, micronidi, spazi di lavoro e associativi: scenari che reinterpretano strategie progettuali e costruttive esistenti, le applicano a un contesto imprevisto e generano una nuova visione dell’abitare, fondata sulla qualità dello spazio, l’inclusione sociale e l’economia circolare.

Il vecchio capannone è un ombrello che libera i nuovi volumi dalla preoccupazione della pioggia e del carico neve, permettendo così una generale economia di costruzione.

I nuovi volumi non hanno nemmeno bisogno di fondazioni, si appoggiano sul pavimento esistente, sul quale scorrono anche gli impianti: più che un'architettura fondata, si può parlare di architettura “appoggiata”, costruita per montaggio a secco, che in quanto tale può essere modificata o eliminata con facilità.

In un futuro prossimo, pensare di riportare il capannone esistente alla sua iniziale funzionalità è uno scenario perseguibile solo attraverso l'azione dello smontaggio.

Questa strategia di intervento si integra perfettamente con l’impiego della prefabbricazione, in particolare con i sistemi costruttivi in legno, che coniugano rapidità di posa e leggerezza strutturale.

Il fatto che l’intervento avvenga all’interno del capannone esistente, al riparo dalla pioggia, consente di semplificare notevolmente le problematiche legate alla tenuta all’acqua - uno degli aspetti più critici di questa tecnica - contribuendo al contempo a un significativo risparmio economico.

L’idea di microcomunità nei casali affonda le radici in un contesto in cui la famiglia estesa e il villaggio rurale costituivano i pilastri dell’organizzazione sociale.

In assenza di strutture pubbliche di welfare, la comunità rurale auto-organizzata rispondeva a molteplici bisogni: il tempo del lavoro e del pasto, la cura degli edifici e degli spazi comuni, l’aiuto reciproco, lo scambio di beni, la partecipazione a riti religiosi e feste patronali erano pratiche diffuse che rinsaldavano il tessuto locale.

Questa civiltà contadina, fondata su unità microsociali coese, ha generato un profondo senso di appartenenza.

Il termine friulano fogolâr (focolare) è divenuto emblema non solo del centro domestico, ma anche dell’identità comunitaria costruita attorno ad esso.

In questo contesto, la corte del casale non era solo uno spazio fisico, ma anche sociale: luogo di incontri quotidiani, narrazioni orali, educazione informale dei più giovani e trasmissione di valori condivisi.

Oggi una crescente solitudine sociale colpisce ogni ambito, ma in particolare le fasce più fragili, come quella anziana, ormai priva di quel welfare di comunità che un tempo suppliva ai bisogni quotidiani.

Il sistema di welfare attuale, pensato per una società con natalità e tassi di sostituzione ben diversi dagli attuali, fatica a rispondere alle esigenze di una popolazione longeva, spesso in buona salute ma bisognosa di assistenza anche emotiva e relazionale.

Parallelamente, i giovani affrontano un mercato immobiliare che richiede stabilità economica e propone prezzi in crescita, mentre il mondo del lavoro premia flessibilità e incertezza.

Trovare casa è diventato un miraggio, e un mutuo pluridecennale appare come una scelta che immobilizza. La casa, sempre più percepita come servizio e non come valore, perde il suo ruolo simbolico e identitario.

La pandemia da Covid-19 ha esasperato entrambi i fenomeni: da un lato ha messo a nudo le fragilità del sistema di assistenza agli anziani; dall’altro ha mostrato l’inadeguatezza dell’offerta abitativa rispetto alla domanda, non solo economica ma anche architettonica.

Non si è più disposti ad abitare in spazi angusti e privi di sfoghi all’aperto: si cercano soluzioni residenziali aperte, flessibili, riconfigurabili ed economicamente accessibili.

Al contempo è emersa una nuova spinta verso forme di abitare meno solitarie, capaci di integrare luoghi di condivisione e incontro, alla ricerca di una prossimità sociale, di un senso di comunità e forse anche di appartenenza.

Un bisogno che per troppo tempo si è cercato di sostituire con servizi commerciali, sportivi, ludici e culturali — aspetti senza dubbio fondamentali di una società — ma che, pensati prevalentemente come servizi, faticano a ricostruire quel tessuto relazionale che un tempo era spontaneo e quotidiano.

Ecco quindi che l’idea di ridare forma ad una microcomunità che viva sotto lo stesso tetto è un’opzione che appare meno estrema di un tempo, e apre anzi a scenari di grande interesse e potenzialità.

Reinterpretare in chiave contemporanea la tipologia della casa colonica — adattandola a una società profondamente mutata — diventa una prospettiva stimolante, capace di rispondere in modo agile alle esigenze emerse negli ultimi anni.

Si immagina così una microcomunità intergenerazionale, composta da giovani coppie o famiglie, anziani soli o in coppia, che condividono spazi comuni pensati per il ritrovo e la socialità, e spazi aperti dedicati al tempo libero e alla cura collettiva.

Un modello abitativo in cui ciascuno contribuisce secondo le proprie possibilità, riscoprendo forme di mutuo aiuto e prossimità che rafforzano il senso di appartenenza e la qualità della vita quotidiana.

Esistono diversi esempi di co-housing in Italia, ma soprattutto nel nord Europa, che mirano a ricreare quella microcomunità non tanto per ragioni ideologiche, ma soprattutto “per motivazioni pragmatiche e se vogliamo egoistiche legate al benessere generato dal vivere in un contesto di relazioni e mutuo aiuto” (Cohousing – L’arte di vivere insieme, L.Rogel, M. Corubolo, C. Gamarana, E. Omegna).

La microcomunità si configura così come uno strumento potente, capace di affrontare simultaneamente tre grandi criticità: la solitudine sociale, la difficoltà di accesso alla casa e il bisogno crescente di assistenza.

Perché questo modello possa funzionare, è necessario ripensare radicalmente lo spazio dell’abitare: garantire la giusta privacy a ogni individuo all’interno di un contesto progettato per la condivisione. Ciò implica affiancare alle unità abitative private e autonome una serie di spazi comuni dedicati al piacere, al lavoro e allo scambio — come sale da pranzo condivise, ambienti multifunzionali, lavanderie, laboratori fai-da-te, spazi per bambini, palestre - oltre a spazi esterni che accolgano giardini privati, aree comuni e orti condivisi.

Realizzare tutto questo all’interno di un capannone dismesso può sembrare un azzardo, ma uno degli scopi della ricerca è appunto sondare possibilità inesplorate.

Ogni progetto nasce dall’ascolto del contesto e dei suoi bisogni.

Il quadro esigenziale raccoglie le funzioni e i servizi necessari a sostenere la vita di una microcomunità contemporanea: spazi per la socialità, per la cura della persona, per l’educazione e per il tempo libero.

Centri culturali, scuole, ambulatori, aree sportive, atelier e spazi ludici diventano elementi di una rete di prossimità che rafforza l’autonomia quotidiana e la qualità della vita.

L’obiettivo è costruire un ambiente integrato, accessibile e connesso, dove abitare significa condividere e partecipare.

In Friuli Venezia Giulia un capannone dismesso e apparentemente privo di valore è diventato uno spazio di lavoro contemporaneo immerso nel verde.

Dismesso da oltre 10 anni, all'interno polvere e macchinari abbandonati, all'esterno oltre 3000m2 di rifiuti e pezzi di marmo, date le condizioni in cui versava, l'intero comparto è stato acquistato ad un valore il 75% inferiore alla stima di mercato.

Sono stati riconfigurati 1000m2 di spazi coperti di cui 500m2 trasformati in uffici con prestazioni energetiche allo stato dell’arte, e 2000m2 di parco.

Il tutto ad un costo il 25% inferiore al costo di costruzione di mercato di pari prestazioni ed in 7 mesi di cantiere.

Questa spazialità insolita, fatta di uffici che si affacciano sia verso l’esterno sia verso un interno-esterno protetto dalle intemperie — una sorta di grande cortile sinuoso dove ritrovarsi — ridefinisce il modo di vivere il lavoro.

Gli ambienti operativi sono dimensionati per il necessario, mentre tutto ciò che favorisce la relazione è condiviso: sale riunioni, cucina, sala pranzo e un sistema di passaggi e cortili coperti che si intrecciano in un ampio spazio comune, pensato per stimolare l’incontro, il confronto e lo scambio.

La sua natura di spazio urbano, protetto ma permeabile agli elementi, richiama più il portico che l’atrio. E questa attitudine si riflette anche nelle persone, che lo abitano con la naturalezza di chi si muove non lungo un corridoio, ma per strada.

In modo sorprendente, qui convivono due modelli opposti di ambiente lavorativo: quello a cubicoli, più raccolto e funzionale, e l’open space, che favorisce la socialità.

Il parco circostante amplifica questa compresenza, offrendo un’estensione naturale dello spazio condiviso e moltiplicando le occasioni di relazione.

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La dismissione del patrimonio industriale è un fenomeno in continua evoluzione, che coinvolge sia i capannoni ormai abbandonati sia quelli tuttora attivi, i quali, come luci, si accendono e si spengono in base agli interessi immobiliari all’interno di un mercato dinamico.

La mappatura, basata sui dati messi a disposizione dalla Regione Friuli Venezia Giulia e arricchita da indagini, sopralluoghi virtuali e fisici, ha consentito di ottenere un’istantanea aggiornata del patrimonio industriale dismesso regionale.

Il database GIS Open Source restituisce parametri e caratteristiche quantitative e qualitative di ciascun sito, offrendo così una classificazione chiara degli immobili e dei loro elementi costitutivi.

Il percorso di mappatura ha impostato letture a diverse scale del patrimonio dismesso. L’analisi a scala territoriale si è focalizzata sugli elementi fondamentali per un eventuale inserimento di microcomunità intergenerazionali nel territorio, considerando:

• collocazione geografica degli immobili: contesto isolato, semi-isolato e urbanizzato;

• dotazioni di infrastrutture: distanza in km dal primo nucleo urbano, accessibilità alle reti di viabilità veloce e lenta, presenza di trasporti pubblici;

• dotazioni di servizi alla persona raggiungibili facilmente a piedi: scuole, negozi, presidi medici, farmacie, aree verdi pubbliche;

• caratteristiche ambientali dei siti: presenza di sistemi paesaggistici rilevanti o fattori di inquinamento acustico e ambientale.

La scala di analisi è poi scesa da territoriale a quella dell’edificio, focalizzandosi su:

• morfologia del lotto;

• estensione complessiva e le caratteristiche tipologiche della superficie (quantità di superficie coperta e scoperta, suddivisa in aree permeabili e impermeabili);

• sistema costruttivo;

• zona urbanistica di riferimento.

La fotografia della mappatura restituisce in tutta la regione un totale di 360 capannoni industriali dismessi, dei quali il 48% si trova in zona incongrua, che complessivamente occupano oltre 800 ettari di territorio.

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Studio dei servizi sulla base del contesto e dei destinatari (famiglie intergenerazionali, anziani)

Ogni sito diventa un laboratorio territoriale, dove leggere le relazioni tra spazi, servizi e comunità, e sperimentare soluzioni replicabili in altri ambiti regionali.

L’individuazione dei siti modello nasce dall’incontro tra dati territoriali e bisogni sociali.

Attraverso lo studio delle caratteristiche insediative, delle connessioni e delle risorse locali, vengono ipotizzati scenari di riuso in grado di accogliere comunità intergenerazionali e promuovere relazioni di prossimità.

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Gli scenari progettuali si articolano secondo tre principali tipologie di principi insediativi.

Il principio a corte prevede l’organizzazione degli spazi residenziali privati e di quelli destinati ai servizi comuni lungo il perimetro del capannone, lasciando al centro un vuoto che diventa fulcro della socialità e della condivisione. Questa soluzione risulta ideale per edifici con una pianta il più possibile prossima al quadrato.

Il principio a fascia, invece, si caratterizza per uno sviluppo lineare che si adatta meglio a capannoni dalla morfologia più allungata: gli spazi residenziali si dispongono lungo uno dei lati maggiori, garantendo doppi affacci e un’accessibilità longitudinale continua.

Infine, il principio a padiglione, più libero e flessibile rispetto ai precedenti, consente una disposizione variabile degli spazi residenziali e delle aree comuni, pur mantenendo sempre una chiara distinzione e un equilibrato rapporto tra spazi privati e condivisi.

Render layout

I principi insediativi nascono dall’osservazione dei contesti e dalla reinterpretazione dei modelli tradizionali dell’abitare.

L’obiettivo è costruire tipologie flessibili, capaci di adattarsi a differenti condizioni territoriali e sociali, mantenendo però costanti alcuni valori fondamentali: la prossimità, la condivisione e la presenza di spazi collettivi.

Attraverso configurazioni modulari e relazioni aperte tra edifici e spazi pubblici, il progetto promuove una nuova idea di comunità, in equilibrio tra autonomia individuale e vita condivisa.

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Ogni intervento di rigenerazione richiede un metodo capace di leggere il contesto, riconoscere i valori esistenti e reinterpretarli in chiave contemporanea.

La metodologia di BOXinBOX parte dall’ascolto del territorio e delle sue risorse, per guidare la trasformazione di spazi produttivi in luoghi di relazione, cura e abitare condiviso.

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L’analisi dei materiali del progetto si articola su più scale — dal contesto territoriale all’edificio — per comprendere le relazioni, le potenzialità e i limiti di ogni sito.

Attraverso la lettura di questi livelli si definiscono gli elementi che orientano la riconversione, trasformando l’esistente in una nuova architettura capace di accogliere funzioni e comunità diverse.

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